UN PO’ DI STORIA. Molti sostengono che la formazione e l’ispirazione dei grandi romanzieri francesi di fine ‘800 sia avvenuta a preferenza di ogni altro luogo nelle taverne e nelle osterie sempre affollate da popolani, avventurieri, manigoldi, insomma da veri maestri di vita e di sopravvivenza. Ma ancor prima dei francesi fu Machiavelli a narrare della sua abituale frequentazione di taverne per trarne motivo di ispirazione durante la redazione de “Il Principe”, famoso testo che dopo oltre cinque secoli gode di imperitura fama.
Milazzo nel campo della ristorazione vanta un’offerta ampia e di qualità che forse non ha eguali in tutta la provincia con la gastronomia diventata da parecchi una delle componenti fondamentali dell’offerta turistica. Una presenza basata su decine di strutture grandi e piccole sparse su tutto il territorio cittadino; dal centro, al Tono, al quartiere marinaro di Vaccarella, al Borgo, al Capo. La ristorazione intesa nelle sue varie articolazioni alimenta una vasta rete di fornitori generando occupazione pur con le problematiche tipiche del settore. Ma da dove viene questa grande tradizione gastronomica, come si è formata ed evoluta nel tempo? Essa è frutto delle diverse presenze che nei secoli hanno caratterizzato la storia di Milazzo e dal fatto che, come tutte le città di mare, ha avuto l’opportunità di assimilare tradizioni e usi di altri popoli.

Milazzo nei secoli che vanno dal XV al XX secolo abbondava di taverne, osterie e rivendite di vino. Nella Melazzo spagnola del XVI e XVII secolo le taverne erano concentrate nella zona dell’odierno Piano Baele, il mare entrava fino a lambire la farmacia Alioto alle cui spalle sorgeva la Chiesa di Santa Maria di Porto Salvo; il convento del Carmine (fabbricato nel 1570 sulla riviera del mare di Levante scrisse il Perdichizzi) chiudeva l’ansa che costituiva l’approdo delle feluche, le imbarcazioni che rappresentavano il grosso del piccolo cabotaggio, utilizzate per il trasporto di mercanzie e passeggeri. Il Perdichizzi nel Melazzo Sacro afferma che nel 1676 la Chiesa di Santa Maria degli Archi posta tra il forte di S. Ermo e il convento del Carmine era venerata da tutto “il marinaggio delle feluche essendo quivi lo scaro delle feluche e da passeggeri che ivi sogliono approvare ed alloggiare nelle vicine osterie”; sempre dallo stesso autore abbiamo notizia di una osteria attigua alla Chiesa di San Giovanni “fabbricata nel 1670 dal sacerdote Placido Amodei ove pure fece osteria acciò che i forestieri non fossero obbligati d’aspettare che s’aprano le porte della città per viaggiare”.
Le taverne erano concentrate nella zona dell’odierno Piano Baele, il mare entrava fino a lambire la farmacia Alioto
La cultura popolare individuò “la frasca d’alloro dinanzi all’uscio è sempre insegna di osteria e taverna” come carattere distintivo della “putia di vino” e tale rimase fino agli anni ’60. Ma il ramo d’alloro era già in uso al tempo dei romani e Cicerone accennò nelle opere pervenute che “nei giorni di solennità e di festa le taverne venivano ornate da rami d’alloro”. Tra le attività economiche quella del taverniere era soggetta ad autorizzazione da parte dei giurati della città ed alla riscossione di imposte che gravavano sul commercio del vino. Inoltre erano rigide le misure contro la contraffazione del vino e per evitare che venissero somministrati alimenti avariati. Sulla severità delle pene comminate abbiamo notizia di quelle previste a Palermo dal Senato e dal Vicerè: si andava dalle frustate, ai tratti di corda, al taglio di una piccola parte dell’orecchio nei casi più gravi.
Edrisi, il geografo di Ruggero II (1150) definì Milazzo luogo di “diletti e comodi” a disposizione di «mercanti e viaggiatori”
Fu Edrisi, il geografo di Ruggero II (1150) a lasciare una delle più antiche testimonianze su Milazzo che definì “paese de’ più eleganti, de’ più nobili…e che somigliano alle maggiori metropoli per colture industrie e mercati…e pei diletti e comodi…”. Aggiunse che era frequentata da “mercanti e viaggiatori”. Logico supporre che tra i “diletti e comodi” cui accenna Edrisi vi fossero taverne e locande dove non mancava il vino, la cacciagione proveniente dal Parcus Regius (sito nell’odierna contrada Parco), il pesce, il tonno catturato nelle tonnare. Dopo il periodo normanno furono gli svevi e quindi gli aragonesi a influenzare costumi e tradizioni nella preparazione dei cibi. Specie la nobiltà aragonese e i cavalieri che avevano seguito Pietro d’ Aragona vollero mantenere le usanze spagnole a tavola. Durante l’epoca normanna Il tonno salato assieme agli altri pesci conservati sotto sale veniva servito tutto l’anno.
Durante il periodo arabo nella piana di Milazzo venne introdotta la coltivazione della canna da zucchero e quella degli agrumi.
Fino al XVI e XVII il bue veniva consumato raramente perché serviva per l’aratura dei campi. Ma anche i quasi due secoli di dominazione araba in Sicilia hanno lasciato il segno nella gastronomia introducendo l’uso delle spezie come paprika e cannella. Agli arabi si debbono le prime forme di pasticceria come la cassata, la pasta di mandorle; sempre di derivazione araba è la pasta con le sarde, l’uso della melanzana e a seguire quello di cetrioli, peperoni, legumi, pistacchi. Durante il periodo arabo nella piana di Milazzo venne introdotta la coltivazione della canna da zucchero e quella degli agrumi. Così si è via via formata anche a Milazzo una tradizione culinaria tra le più ricche al mondo proprio per la possibilità di assimilare, adattare e rielaborare le diverse pietanze e modalità di preparazione succedutesi nel tempo.

Secondo alcuni autori furono i normanni a introdurre in Sicilia il baccalà. Gli spagnoli introdussero mais, peperoncini, fagioli e cioccolato portati dal nuovo mondo ed anche il pomodoro. La salatura venne introdotta in Sicilia dai Fenici mentre i greci portarono l’ulivo e la vite; la pasta in Sicilia, secondo alcuni si affermò sin dall’età romana, era fatta di grano duro e nella Piana di Milazzo la produzione di grano fu fiorente per secoli, gradualmente soppiantata da vite e ulivo. Ma oltre al vino cosa si trovava nelle bettole e nelle taverne di fine ‘800 o dei primi decenni del ‘900 a Milazzo? Poche cose: al primo posto l’uovo sodo che non doveva mancare mai, poi olive in salamoia, “sarduzze salate”, cipolle, “accia”, “pisantuni salatu a balice” (di tradizione catalana), raramente formaggio e pesce stocco. E l’acqua? Quella doveva stare lontano dal banco del vino (almeno 2 metri) per evitare che “U taverneri” potesse aggiungerla al vino. Qualcuno avanti negli anni le ricorda ancora quelle porte con la “frasca d’alloro” appesa.
Pino Privitera
E bello conoscere la storia della nostra splendida città…grazie agli autori